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Antibiotici fantastici

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Antibiotici fantastici
(Last Updated On: 7 febbraio 2024)

Novità con nuovi filoni i ricerca contro l’antibioticoresistenza

L’utilizzo di antibiotici non è l’unico fattore scatenante della nascita dei ‘super-batteri’, cioè di microrganismi resistenti ai trattamenti, la cui diffusione costituisce un grave problema a livello mondiale. Uno studio guidato dall’Università di Oslo (pubblicato su “The Lancet Microbe”) sottolinea l’importanza del tipo di farmaco e di batterio, così come dell’ambiente e del paese. La scoperta potrebbe aiutare a pianificare meglio gli interventi di sanità pubblica ed a fermare la diffusione delle infezioni resistenti alle cure.

Tra i filoni di ricerca attivati, con l’obiettivo di ridurre e contenere l’antibiotico-resistenza, c’è da segnalare una revisione di dati degli ultimi 20 anni, provenienti da due paesi, Regno Unito e Norvegia, che ha posto a confronto il Dna estratto da 700 nuovi campioni batterici con quello di 5.000 vecchi campioni, già studiati in precedenza. I ricercatori sono stati coordinati da Anna Pöntinen, Rebecca Gladstone e Henri Pesonen.

L’analisi dei risultati conferma che gli antibiotici aumentano il numero di super-batteri. Tuttavia, ciò dipende da molti fattori: il tipo di farmaco utilizzato, il Dna del microbo, ma anche l’ambiente circostante, vale a dire gli altri batteri presenti e tutto quello che potrebbe indurre a favorire geni che conferiscono resistenza ai trattamenti. Si sono anche evidenziate alcune differenze. Ad esempio, la classe di antibiotici beta-lattamici, diversi dalla penicillina, viene utilizzata da tre a cinque volte più spesso nel Regno Unito rispetto alla Norvegia e questo ha portato ad un aumento delle infezioni resistenti a questi farmaci nel primo Paese.

Ma lo stesso esito non è stato riscontrato per un altro antibiotico, il trimetoprim, che mostra lo stesso schema di utilizzo. Secondo gli autori dello studio, dunque, sono necessari ulteriori ricerche per comprendere appieno l’effetto combinato di antibiotici, viaggi, sistemi di produzione alimentare e altri fattori che determinano i livelli di resistenza ai farmaci. Viene ribadito il valore aggiunto dell’approccio One Health.

Anche da noi l’anno nuovo si è aperto con due buone notizie sul fronte della resistenza agli antibiotici. La prima riconferma, accanto ai comprensibili timori creati dalla rapida evoluzione dell’intelligenza artificiale, dei benefici di queste nuove tecnologie, di cui già raccogliamo i frutti nell’ambito della ricerca medica.

Attraverso un approccio basato sulle reti neurali di “deep learning”, sono state valutate, in uno studio pubblicato su Nature, le proprietà antibiotiche e la possibile tossicità per le cellule umane di quasi 40.000 composti. Sono state anche predette, sulla base di modelli matematici, le stesse caratteristiche per oltre 12 milioni di molecole. Si tratta di una ricerca che, con le sole tecniche tradizionali, sarebbe stata difficilissima e laboriosa, se non impossibile, da portare a termine. Con l’aiuto di questa particolare applicazione dell’intelligenza artificiale è invece stato possibile identificare le caratteristiche strutturali capaci di conferire la resistenza, selezionando 283 composti da mettere alla prova in laboratorio.

È emersa così una nuova classe di molecole dotata di azione selettiva nei confronti dello stafilococco aureo resistente alla meticillina (MRSA) e degli enterococchi resistenti alla vancomicina, rivelandosi  capaci di evadere la resistenza e di ridurre le concentrazioni batteriche in modelli murini di infezioni. Un nuovo farmaco in arrivo? Non ancora, ma la ricerca fornisce un passo interessante in questa direzione, soprattutto per il metodo proposto.

Anche la seconda bella notizia merita di essere spiegata e inserita nel contesto. Un gruppo di ricercatori della “Roche” ha infatti segnalato, sempre su Nature, la scoperta di una nuova classe di farmaci attivi nei confronti di Acinetobacter baumannii (con fenotipo resistente ai carbapenemi – CRAB). Con questo nome ci si riferisce in realtà ad un complesso di quattro ceppi della famiglia Acinetobacter, di cui tuttavia, per semplicità, si parla sempre come se fosse uno solo.

Non un germe tra tanti, ma il più pericoloso, secondo due elenchi degli agenti infettivi che rappresentano le più gravi minacce per l’umanità e per i quali è più urgente trovare cure efficaci, stilati rispettivamente dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e dai Centri per la prevenzione ed il controllo delle malattie (CDC) del governo statunitense.

Acinetobacter baumannii resistente ai carbapenemi – CRAB, è in cima alla lista dei “patogeni prioritari” resistenti agli antibiotici, stilata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2017. Negli Stati Uniti, il batterio ha causato circa 8.500 infezioni in pazienti ospedalizzati e 700 decessi in quell’anno, secondo i dati del CDC. Il CRAB rappresenta circa il 2% delle infezioni riscontrate negli ospedali statunitensi. È più comune in Asia ed nel Medio Oriente e causa fino al 20% delle infezioni nelle unità di terapia intensiva, in tutto il mondo.

E’ un patogeno opportunista, che in pazienti ricoverati in ospedale, in condizioni critiche, provoca infezioni invasive (per lo più polmoniti nosocomiali o sepsi), che risultano letali in circa la metà dei casi. Per trattarle, non restava fino a poco tempo fa che ricorrere a vecchi antibiotici, come le polimixine, con il loro carico di neuro e nefrotossicità. Anche queste, comunque, sono spesso inefficaci, davanti a ceppi con una resistenza estrema o totale, come quelli isolati già diversi anni fa (da pazienti ventilati), in Grecia, Italia e Spagna e poi nel corso di varie epidemie in altri Paesi.

I batteri prosperano in ambienti assistenziali, come ospedali e case di cura. Le persone a più alto rischio di infezioni sono quelle che hanno un catetere, che sono attaccate ad un ventilatore o che hanno ferite aperte a causa di un intervento chirurgico. A. bumannii è così difficile da eliminare che la Food and Drug Administration statunitense non ha approvato una nuova classe di antibiotici per curarlo da più di 50 anni – sottolineano i ricercatori nel loro studio, pubblicato sulla rivista Nature.

Una strategia innovativa contro un “osso duro”. La notizia di una nuova arma contro Acinetobacter spp è quindi importante, soprattutto perché identifica, dopo 50 anni, un bersaglio contro cui si potranno sviluppare nuove molecole. L’attenzione degli scienziati si è infatti concentrata su una struttura (LptB2FGC complex), descritta pochi anni fa ad Harvard, rivelatasi necessaria a questi batteri per il trasporto trans-membranario del  liposaccaride da cui dipende la loro resistenza.

Tra i vari peptidi che si sono dimostrati in grado di bloccare questa attività batterica, i ricercatori hanno identificato una molecola che in vitro e nel modello animale si è rivelata efficace: l’hanno chiamata zosurabalpin. Tuttavia, nemmeno in questo caso si può parlare di una cura “vicina”, dal momento che non abbiamo ancora alcun dato relativo alla sua sicurezza, né tantomeno alla sua efficacia sugli esseri umani, sebbene un primo trial clinico sia già in corso.

In verità un nuovo farmaco ci sarebbe già. Si chiama Xacduro ed è costituito da due componenti: sulbactam e durlobactam. È stato autorizzato dalla Food and Drug Administration a maggio dell’anno scorso, poco dopo la pubblicazione su Lancet di un trial di fase 3, in cui era stata verificata, sui pazienti, la non inferiorità rispetto alla colistina, garantendo minori tossicità e mortalità, a 28 giorni. Realizzato dalla biotech “Entasis therapeutics”, potrebbe già essere utilizzato per salvare almeno parte delle migliaia di pazienti che contraggono questo germe multiresistente anche in Europa, in particolare in Italia. La resistenza nei suoi confronti sembra per ora molto limitata!

In ogni caso è da ribadire l’abuso di antibiotici da parte dei cittadini che spesso riescono a ottenerli senza ricetta, da parte di farmacisti compiacenti o prendendo per sfinimento un medico che non ritiene di doverli prescrivere. In alcune circostanze molti colleghi ricorrono all’antibiotico ancora con superficialità, per abitudine o per quella che chiamano “copertura” antibiotica, che in realtà rischia di essere solo medicina difensiva. Il vero buco nero permane nelle Strutture Sanitarie di ricovero e cura.

I risultati di uno studio pubblicati su The Lancet Infectious Diseases, hanno evidenziato che i pazienti trattati con cefiderocol (nuova cefalosporina siderofora), hanno presentato un livello più elevato di eradicazione dei patogeni, buona tollerabilità ed esiti clinici simili ai pazienti trattati con imipenem-cilastatina, in soggetti con infezioni del tratto urinario (UTI) complicate, causate da numerosi batteri Gram-negativi multifarmaco-resistenti.

Cefiderocol supera efficacemente i principali meccanismi di resistenza agli antibiotici messi in atto dai batteri Gram-negativi (caratterizzati da due membrane esterne che rendono difficile la penetrazione degli antibiotici e di canali delle porine che possono adattarsi, bloccando l’accesso agli antibiotici e di pompe di efflusso che estrudono gli antibiotici stessi dalla cellula, rendendoli inefficaci). Il tutto grazie al suo meccanismo innovativo di ingresso nella cellula, che sfrutta il bisogno di ferro dei batteri per sopravvivere.

Gli autori hanno tuttavia notato che l’esclusione dallo studio di pazienti con infezioni carbapenemi-resistenti ha rappresentato un’importante limitazione, essendo il comparatore un carbapenemico. Gli studi clinici in corso sull’efficacia di cefiderocol nella polmonite e in pazienti con infezioni carbapenemi-resistenti forniranno ulteriori informazioni.

Fagi VS batteri: una battaglia contro l’antibiotico resistenza. Si è tentato di affrontare la questione anche con un approccio diverso, cercando la complicità dei virus, in particolare i batteriofagi, che attaccano appunto i batteri, rappresentando la chiave della “fagoterapia”.  Per quanto promettente da un punto di vista strettamente teorico, non è ancora supportata da dati di efficacia né di sicurezza che ne consentano una applicazione su larga scala.

Il batteriofago PASA16 è stato utilizzato (con autorizzazione per uso compassionevole) su 16 pazienti resistenti ai trattamenti contro Pseudomonas aeruginosa (PA), rivelandosi efficace e con avventi avversi minori. È stato registrato un tasso di cura/remissione del 86.6% (13 su 15 dei pazienti). In 6 pazienti c’è stata una completa guarigione, mentre la remissione è stata osservata in altri 7, la maggior parte dei quali presentava infezioni (osteomielite) da dispositivi protesici: 2 pazienti su 15 sono morti (entrambi avevano gravi patologie di base e infezioni polimicrobiche resistenti ai farmaci).

Sono ancora pochi i trial clinici sulle terapie con batteriofagi, per la gestione delle infezioni refrattarie. Il problema dell’antibiotico resistenza è ormai noto da anni ma ancora mancano soluzioni “definitive”, applicabili estesamente.

BIBLIOWEB:

Pöntinen AK, Gladstone RA, Pesonen H, et al. Modulation of multidrug-resistant clone success in Escherichia coli populations: a longitudinal, multi-country, genomic and antibiotic usage cohort study Open Access, 2024 (PDF)

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