Obbligo di cura, non di guarigione
Nessuno ha mai messo in dubbio lo stretto nesso intercorrente tra un ritardo nella diagnosi e la possibilità di guarigione e, di conseguenza, le responsabilità qualora il ritardo della diagnosi causi la morte del paziente. Ma se la malattia è talmente grave sì da rendere inutile la precoce diagnosi e condurre comunque a morte il soggetto?
Le ultime sentenze dicono che c’è responsabilità.
La chance di vivere diventa la chance di “qualità di vita”. Orbene, magari il paziente morirà lo stesso ma, avendogli fatto subito e correttamente la diagnosi, magari si possono effettuare quei trattamenti palliativi che miglioreranno gli ultimi mesi di vita del paziente.
La Suprema Corte più volte ha sancito questo preciso diritto dell’individuo. L’ultima volta è di poco meno di un anno fa. Il ginecologo non ha diagnosticato un evidente carcinoma uterino, non ha fatto effettuare nei tempi utili i dovuti accertamenti diagnostici e quando, 5 mesi dopo la prima visita, è stato finalmente diagnosticato il carcinoma era ormai troppo tardi.
Troppo tardi non per guarire, vista l’estrema malignità ed aggressività del tumore (anche se diagnosticato subito, avrebbe portato comunque a morte la donna), ma, almeno, per avere una qualità di vita migliore nel poco tempo a disposizione.
E’ bene ricordarci che l’obbligo del medico non è guarire ma curare e nella cura è insito tutto quello che può far stare meglio il nostro paziente. Sostanzialmente un richiamo all’umanità, all’obbligo di “prendersi cura” del paziente che è uomo come noi. Ricordiamocelo noi, prima che siano i giudici a ricordarcelo.
BIBLIOWEB:
Cassazione Civile Sezione 3 Sentenza n. 16993/15
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