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Decesso da lavori forzati

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Decesso da lavori forzati
(Last Updated On: 9 luglio 2017)

Lostato di carenza cronica del personale sanitario è un evento “consolidato” per quanto riguarda il SSN italiano e che perdura da decenni. La soluzione adottata ovunque è quella di aumentare il “carico di lavoro” dei sanitari in servizio, spesso non rispettando turni di riposo, come ricordatoci dalla condanna inflittaci dalla comunità europea e giustificandosi con l’esigenza di assicurare il servizio all’utenza.

Questo fino a ieri, o meglio fino a che si è espressa la Cassazione. Con la  Sentenza n. 14313, del 8 giugno 2017, la Suprema Corte di Cassazione Sezione Lavoro ha chiarito che l’azienda sanitaria non se ne può approfittare caricando di lavoro i suoi dipendenti, oltre i limiti fisicamente sopportabili, con la “scusa” di garantire l’efficienza dei servizi. Anche se questi svolgono i compiti loro assegnati senza protestare.

Un neo, volendo, c’è: possiamo definirla una “sentenza postuma” visto che ci sono voluti venti anni (dieci nelle aule dei tribunali) perché con questo principio la Cassazione, sezione lavoro, desse ragione alla richiesta di risarcimento della famiglia di un tecnico di radiologia deceduto a 30 anni, nel 1998, per ‘superlavoro’. La Corte, dopo aver richiamato i principi in materia di riparto dell’onere della prova, ha ribadito come in nessun caso sia possibile per il datore di lavoro (una ASL pubblica) giustificare la condizione di superlavoro del sanitario, in questo caso un tecnico di radiologia, adducendo a motivazione la necessità di assicurare il servizio all’utenza.

Una condizione lavorativa, precisa la Corte, che configura la piena imputabilità di tali scelte organizzative adottate dalla P.A. che, per far fronte alla necessità di smaltire una notevole mole di lavoro ed assicurare la regolarità del servizio agli utenti, ha imposto condizioni di ‘superlavoro’ eccedenti i limiti contrattuali e legali. Nel dibattimento (in primo grado) era stato dimostrato che:

1) dal 1991 al 1998 (data del decesso del TdR) i quattro tecnici di radiologia avevano effettuato ben 148.513 prestazioni, corrispondenti ad una media di 18.564 esami annui. A questi  andavano aggiunti gli esami del servizio di tomografia computerizzata, pari ad una media di circa 662 annui;

2) lo svolgimento di turni di pronta disponibilità notturna e festiva e di pronta disponibilità diurna, in eccesso, rispetto ai limiti previsti dalla contrattazione collettiva vigente;

3) il fatto che per recarsi nei servizi di radiologia, ecografia e tomografia computerizzata, il tecnico si era trovato a percorrere (anche in inverno) il tratto esterno, che collegava tali servizi;

4) la violazione reiterata e sistematica dei limiti legali e contrattuali,  del dipendente, ai turni di pronta reperibilità (violazione dell’art. 44 CCNL, comparto sanità del 1.9.95, il quale ha previsto che l’istituto della pronta disponibilità rimane regolato dall’art. 18 del D.P.R. 270/1987 ed è applicato rigorosamente agli operatori ed alle condizioni ivi indicate).

L’imprenditore (in questo caso l’ASL) è tenuto ad adottare le misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei “prestatori di lavoro”.  In nessun caso può giustificare la condizione di ‘superlavoro’ con l’esigenza di assicurare il servizio all’utenza.

Speriamo che questa sentenza “faccia scuola” in tutta Italia.

BIBLIOWEB:

Suprema Corte di Cassazione Sezione Lavoro Sentenza n. 14313, 8 giugno 2017 (in allegato)

Corte di Cassazione - Sentenza n°14313/2017  (in formato PDF)

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Giuseppe Catanoso

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